La dimensione della comunità – intervista a Giuseppe Guzzetti

Il percorso delle Fondazioni di Comunità fa ormai parte integrante dell’impegno della Fondazione Cariplo come motore e ascolto dei territori. Ultima nata, la nostra Fondazione di Comunità Milano città, Sud Ovest, Sud Est, Martesana, che ha completato la rete presente sul territorio lombardo.  La comunità è diventata centrale quale presupposto della coesione sociale e dell’impegno civico. Per cogliere spunti e sollecitazioni, ne discutiamo con l’ex presidente di Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, che ha avviato nel nostro Paese l’esperienza delle Fondazioni di Comunità.  Di comunità, in questo tempo complicato, si avverte un gran bisogno. Non solo perché rappresenta il modo di stare insieme delle persone, ma perché è il tessuto sul quale costruire nuove opportunità. 

Avvocato Guzzetti, lei ne ha fatto sempre il riferimento per rendere sempre più rispondente alle urgenze l’intervento della Fondazione Cariplo, che ha guidato per vent’anni, passando poi il testimone al Giovanni Fosti Credo che la Comunità sia la dimensione del futuro, vuol dire territorio, identità, ascolto.
Proprio in questi mesi di pandemia, se pensiamo al coinvolgimento delle Fondazioni Comunitarie ed al Progetto Let’s go messo in campo dal Presidente Fosti, si può vedere come andare nella direzione di un maggior coinvolgimento dei giovani nel volontariato sia stata una scelta decisiva e molto lungimirante. Ecco, la comunità, è anche l’idea di una sorta di staffetta generazionale che ha consentito di rispondere all’emergenza quando i volontari più anziani erano costretti a casa, e sono stati sostituiti dai giovani

Ma che cosa rappresenta per lei la comunità?
Una parola di cui non si può più fare a meno. Leggevo in questi giorni il designer Ezio Manzini che parla di una nuova città che recuperi il concetto di comunità, fatta di relazioni vive tra le persone. Vedo che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza si parla di case di comunità. Sono segnali forti di un nuovo modo, che poi è antichissimo, di concepire la convivenza sociale e politica.

Perché a un certo punto la Fondazione Cariplo ha deciso di creare le Fondazioni di Comunità?
Quando le abbiamo inventate dovevano rispondere ad una esigenza apparentemente semplice, ma soprattutto ad un’idea: la vicinanza al territorio, la capacità di ascoltare i bisogni e individuare progetti, le priorità. La Cariplo era attiva in tutte le province lombarde e in due province del Piemonte, la domanda era: come poter assicurare il presidio sul territorio.

E non bastava aprire degli uffici?
Ci chiedevamo come raccordarci con la gente e con il territorio. Era un’ipotesi, ma non mi convinceva molto. Avevo letto che negli Usa esistevano le community foundation, che sono una cosa diversa. Le community degli Usa si occupano di un solo problema, penso ad esempio a quella che si occupa dell’insegnamento dell’inglese alle comunità ispaniche. Prenda il vocabolario inglese,  community vuol dire  ”gruppo sociale di qualunque dimensione i cui membri risiedono in un territorio, condividono i medesimi organi di governo e hanno una tradizione culturale e storica comune”. Ecco, siamo partiti da lì. Creare Fondazioni che potessero diventare punti di riferimento per le realtà associative, per il terzo settore, per le istituzioni locali e per tutti gli stakeholder.

In mondi che sono spesso molto frastagliati, molte iniziative indipendenti…
Questo è certamente un valore, sui territori si fanno già molte cose, ma spesso in modo disarticolato. Abbiamo pensato di creare soggetti che non fossero semplici terminali della Fondazione Cariplo, ma che avessero un’identità e un radicamento nel territorio. In grado di valorizzare la cultura del dono con il principio della sfida: Cariplo mette in campo 10 milioni ma la Fondazione deve essere in grado di raccoglierne 5. Un meccanismo di moltiplicazione che poggia su un principio: la cultura della prossimità è molto forte, le persone sono molto attente alle esigenze dei luoghi nei quali vivono e sono disposti a dare più di quanto si immagina.

Ma qual è il ruolo delle Fondazioni di comunità?
E’ un soggetto che conosce i problemi, vede le urgenze, chiama la solidarietà e organizza i progetti, attraverso i bandi, per rispondere ai bisogni. Ma soprattutto consolida il senso di appartenenza.

Vero. Però le identità sono molto forti…
Certo. Dalla provincia di Lodi che è una comunità, alla provincia di  Como, dove le comunità sono più di una: l’erbese ha esigenze diverse dall’appianese o dal canturino e l’Alto lago. Una diversità che è un valore, una ricchezza. È un punto decisivo, va mantenuto ma ricondotto a programmi organici di sviluppo del territorio.

Meno interventi dispersi e più progetti?
Quando si parla di welfare di comunità, si parla di questo. Non più finanziare le singole associazioni ma avere un programma di sviluppo per le famiglie, per i bisogni sociali, i giovani, i minori, l’emergenza del lavoro. Nell’attuazione di questo programma le associazioni di volontariato, gli enti del privato sociale, sono insostituibili per attuare il programma medesimo, soprattutto in coordinazione e collaborazione fra loro. Le Fondazioni di Comunità sono dei sensori di quello che accade e hanno il compito di dare risposte mirate in un quadro di sviluppo, non con interventi sporadici.

La pandemia ha dimostrato che questo modello è l’unico possibile?
Basta guardare come hanno reagito tutte le Fondazioni di Comunità. Al tavolo c’erano i comuni, i volontari, il welfare aziendale e i cittadini. E la reazione è stata veloce. Se penso a Como dove si è mobilitata per dotare i medici di mascherine e comprare i respiratori o Milano, dove c’è stata una grande mobilitazione per realizzare l’Ospedale Policlinico in Fiera…tutte le Fondazioni comunitarie si sono messe a disposizione dei territori. Perché hanno visione e vicinanza; conoscere le singole realtà locali è fondamentale. Per essere efficaci sono necessari tre pilastri: lo Stato, il mercato, e la comunità.

Diversamente il rischio è disperdere gli interventi?
Appunto. Le persone hanno bisogno di conoscere la realtà nelle quale vivono, le sue fragilità.  In questo modo il livello di partecipazione cresce. La pandemia, da questo punto di vista, ha dimostrato quanta solidarietà è possibile, basta vedere quante risorse sono state mobilitate.

E’ stato attivato un sistema su più livelli…
La scelta della Fondazione Cariplo è stata chiara. È intervenuta in parte direttamente, ma soprattutto mobilitando le risorse delle Fondazioni di Comunità. Il valore della prossimità è stato centrale. Sono due livelli che, lavorando insieme, consentono di ottenere risultati superiori alla loro somma. Un’altra scelta lungimirante è stata quella di pensare all’emergenza del volontariato: con l’esplodere della pandemia c’è stato un momento nel quale i volontari più anziani sono dovuti rimanere a casa. E l’intervento dei giovani ha consentito di assistere gli anziani, i più fragili, le persone in difficoltà, dai pasti alle medicine. Una sorta di staffetta generazionale. Un’esperienza preziosa anche per il futuro.

A proposito della parola comunità, ormai è entrata nel vocabolario diffuso…
Se penso che un Comandante dei Carabinieri ha sottolineato come l’azione dei carabinieri debba inserirsi nella dimensione della comunità, allora sì, è stata fatta tanta strada. È una dimensione che coinvolge tutti, a cominciare dalle istituzioni. Mi auguro che la missione 5 del Pnrr dia adeguato spazio e ruolo alla comunità senza la quale credo sarà difficile, per me impossibile, raggiungere gli obiettivi di un Paese che non “lascia indietro nessuno” come ha detto il presidente Draghi.